Back

La Riforma Universitaria.

Una valutazione a caldo

In questi giorni le università di tutta Italia riprendono il proprio lavoro accademico. Il 2011
purtroppo non è un “Buon Anno” per l’università, già appesantita nel corso dell’ultimo decennio da
riforme e decreti che, invece, avrebbero dovuto avvicinarla ai migliori standard europei. Ora si
trova a quella svolta “epocale” da più parti scongiurata, che cambierà radicalmente il volto di questa
istituzione storica. Gli ultimi anni accademici si sono trascinati all’insegna dell’incertezza e del
caos, tra insegnamenti soppressi, cambiamenti in itinere nei manifesti di studio, esami e sessioni di
laurea imprevedibili, caratterizzati da un’attività culturale altalenante e a tratti, purtroppo,
insignificante. Non illudiamoci, non è mai esistito un passato mitico per l’università, ma la
pesantezza attuale ne ricorda i periodi più bui.
Il DDL Gelmini n.1905-B, definitivamente approvato al Senato il 23 dicembre scorso, afferma che
porterà qualità ed efficienza. I principi ispiratori della riforma (Art. 1) indicano quale fine il
“progresso culturale, civile ed economico della Repubblica”; insomma porterà ordine e novità. Ma
questo “nuovo ordine”, che non ci coglie di sorpresa, certamente ci preoccupa e solleva molti dubbi.
L’università, infatti, cambia volto e con essa i cittadini, i giovani, la cultura e la società intera; un
cambiamento che non è certo fresco di giornata ma che ha ormai l’odore rancido del vecchio. Una
crisi dell’università, che è la crisi dell’intero sistema.
Leggendo i 29 articoli del Testo approvato1 si ha la netta impressione che le parole abbiano
cambiato o perso significato. Libera ricerca, progresso culturale, valorizzazione del merito,
rimozione degli ostacoli, efficacia, trasparenza, responsabilità sono termini che danno respiro alla
mente, lasciando immaginare un futuro pieno di speranze per la nostra università. Purtroppo lo
sfondo sul quale queste parole s’incastrano, è in realtà tanto misero da far crollare ogni legittima
speranza.
È difficile sintetizzare in poche righe un disegno di legge così complesso e articolato, e certamente
non aiuta leggerlo in modo disgiunto da ciò che l’ha preceduto e che lo circonda. Ogni cittadino
responsabile dovrebbe piuttosto cercare d’individuare, senza per forza conoscerne tutti i dettagli
tecnici, i suoi orizzonti d’indirizzo.
A nostro avviso tra la riforma dell’Università e quella della Scuola di base scorre un progetto
uniforme che muove verso una medesima direzione: la regressione intellettuale dell’uomo e della
donna. Questo declino confermato dal taglio violento dei fondi all’istruzione (laddove, invece, i dati
OCSE2, ci indicano ancora la strada dell’investimento) è accentuato ponendo sempre maggiori
ostacoli ai giovani studiosi che vorrebbero inserirsi nel tessuto accademico in modo non troppo
precario, per contribuire all’avanzamento culturale della nazione, ma anche attraverso
un’autonomia didattica, in realtà sempre più limitata, che si concretizza in piani didattici svuotati di
profondità e incapaci di costruire nello studente autonomia, capacità di analisi e interpretazione.
La riforma universitaria ci dà anche l’occasione di vedere da vicino un nuovo esempio distruttivo
della tanto declamata sussidiarietà. Ciò ha spinto il nostro ministro del Welfare a delegittimare
pubblicamente ruoli sociali diversi dal suo, scaricando la colpa del regresso attuale del Paese sulle
spalle di “cattivi genitori e cattivi maestri”3. Invece di creare nuove opportunità per un
rinnovamento dei ruoli e delle responsabilità (certamente senza togliere ad alcuno le proprie colpe),
si colpevolizza qualcuno al fine di concentrare nelle mani dello Stato “salvatore” una maggiore
autorità rispetto a quella dovuta, svelando poi i veri interessi e le vere alleanze, a danno della
cultura e dell’istruzione pubblica e a favore di quella privata (in larga parte cattolica). A tal
proposito se è vero che sprechi ci sono stati nelle nostre pubbliche istituzioni e che non ci sono più
fondi per l’istruzione, come si spiega l’emendamento alla legge di stabilità che aumenta
gli stanziamenti per l’istruzione privata da 150 a 245 milioni, cifra superiore anche ai finanziamenti
per i Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale (PRIN 2009)?
L’Università come la scuola è ormai piegata ai principi assolutizzanti del mercato e della
produttività. I genitori e i docenti sono colpevoli proprio perché hanno dato agli studenti
“competenze che non sono richieste dal mercato del lavoro”4. Ma può un’istituzione culturale
piegarsi al solo interesse economico? Certamente il Ddl Gelmini ne favorisce tutte le condizioni
necessarie: toglie potere decisionale e gestionale agli addetti ai lavori, a coloro che l’università la
vivono e la fanno; trasforma il preside sempre più in un dirigente aziendale come già è successo per
gli altri ordini di scuola; toglie potere decisionale al Senato Accademico, trasformandolo in un
organo puramente consultivo e di coordinamento, affidando i veri poteri di governo al Consiglio di
Amministrazione non eleggibile, formato per il 40% da managers esterni alla vita dell’ateneo,
riducendo ulteriormente la democrazia interna.
Lo stesso Decleva presidente della CRUI (Conferenza dei Rettori) e rettore dell’Un. degli Studi
di Milano, ha ufficialmente sostenuto la riforma anche se in realtà le posizioni all’interno della
Conferenza erano molto divergenti, e alcuni rettori hanno anche ritirato la loro quota associativa
annuale5, dimostrando come tale riforma metta in campo forti interessi personali.
Le università che vogliono evitare il commissariamento ministeriale devono tenere il ritmo della
nuova imprenditorialità universitaria, forse percorrendo la strada prevista già dalla legge 133/08,
che sembra condurre verso la trasformazione in Fondazioni private. In questa strada della
concorrenza, pare d’intravedere che il “diritto allo studio” (nel senso inteso fino ad oggi) si
trasformerà. Il merito e la qualità poi è difficile al momento dire su quali criteri si fonderanno, dato
che la stessa Agenzia Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca
(ANVUR) costituita nel 2006, è ancora in fase di organizzazione.
Guardando la riforma nel complesso dei movimenti economico-sociali che l’hanno caratterizzata, la
crisi, mesi di scioperi, dibattiti, lettere, manifestazioni di vario tipo, fino agli avvenimenti estremi di
violenza, è impossibile non vedere sullo sfondo un paese decadente. Ma non è solo una questione
economica e sociale, è soprattutto una questione spirituale.
Come Comitato Insegnanti Evangelici Italiani abbiamo deciso di esprimerci in merito alla
riforma dell’Università, non solo per un interesse di parte – perché al nostro interno ci sono laureati
e studenti universitari – ma soprattutto perché come insegnanti ed educatori crediamo fermamente
che ci sia bisogno di riforme vere in questo paese, ma tali riforme devono aprire sempre nuovi spazi
di responsabilità e di libertà intellettuale, professionale e spirituale per il bene dell’Italia e delle
giovani generazioni.

Il Comitato Insegnanti Evangelici Italiani – 10 gennaio 2011

 

(1) http://www.senato.it/leg/16/BGT/Schede/Ddliter/testi/36169_testi.htm

(2) Si veda l’ultimo resoconto sui dati OCSE: Education at a glance 2010,http://www.oecd.org/dataoecd/45/39/45926093.pdf.

(3) http://www.repubblica.it/economia/2010/12/27/news/sacconi_e_giovani-10622023/

(4) Ivi.

5() La Sapienza «taglia» la Crui: i soldi alla ricerca, da Il Manifesto del 11 dicembre 2010,
http://unissricercatorietal.wordpress.com/2010/12/11/la-sapienza-%C2%ABtaglia%C2%BB-la-crui-i-soldialla-
ricerca/