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Vecchia ma sempre nuova.


La vecchia ma sempre nuova questione che si ripropone ad ogni vento di riforma della scuola è quella dell’insegnamento della religione. In occasione della consultazione sulla “Buona Scuola” promossa dal Ministero dell’Istruzione, non sono infatti mancati i contributi, anche autorevoli, da parte dei cittadini e delle associazioni.

Notevole per la sua importanza è il documento programmatico proposto dall’illustre prof. Paolo Scarpi e sottoscritto dalla Società Italiana Storici delle Religioni (SISR), documento elaborato a Padova il 29 ottobre scorso in un convegno dedicato al tema “Una proposta educativa: storia delle religioni (o scienze delle religioni?) a scuola”, che i convenuti hanno inviato al Governo. Le motivazioni sono esplicitate nella relazione tenuta dal prof. Scarpi all’assemblea della SISR: “In un’epoca in cui un numero inedito di tradizioni religiose differenti si trova a convivere nel nostro Paese, una scuola che voglia educare alla cittadinanza democratica e all’inclusione sociale delle sue diverse componenti culturali non può più  sottrarsi al compito di affrontare lo studio dei ‘fatti religiosi’ sotto il profilo storico e comparativo […] si chiede che sia aperto un tavolo di confronto tra legislatore e mondo accademico per esaminare le possibili modalità d’inserimento della Storia delle religioni nei programmi scolastici di ogni ordine e grado”. 

La proposta avanzata è in verità argomento di pubblico dibattito ormai da molti anni e vanta una cospicua letteratura a sostegno sia accademica sia divulgativa, ma non è mai stata presa in seria considerazione dal governo per essere attuata.

I motivi potrebbero essere tanti. Il principale senza dubbio è la forte impronta cattolica della scuola italiana, dovuta allo storico sodalizio politico tra lo Stato Italiano e quello Vaticano, che considera la scuola come una propria riserva “tutelata”. E dove c’è la religione cattolica non c’è spazio per altri, visto il regime di monopolio tutto italiano del cattolicesimo. In verità sarebbero possibili altri equilibri, come in altri paesi europei, ma non se ne parli nemmeno. Allora ecco che avanza la “storia delle religioni (o scienze…?)”. La duplice dicitura rimanda all’idea portante, infatti la prospettiva storico critica e quella scientifica si poggiano sull’idea dell’insegnamento del “fatto religioso”, aconfessionale, neutrale e in linea con la Costituzione (laica). 

Tre rilievi possono essere mossi a questa proposta. Il primo riguarda l’idea che esista un “fatto” religioso, concetto molto critico e tormentato nella sua definizione scientifica. Ma chi, persona o istituzione, può decidere che cosa è un fatto religioso, anzi, che cos’è un “fatto”? Chi sta tanto al di sopra delle parti da godere di questa prospettiva? Il pensiero infatti, anche quello “oggettivo e scientifico”, ha le sue radici in un humus pre-logico di convinzioni, più o meno consapevoli, sulle questioni ultime: la realtà, l’uomo, la vita, la morte, il significato dell’esistenza, questioni che ri-collegano a degli assoluti, quindi religiose in senso stretto. Anche a prescindere da ogni imposizione confessionale, il pensiero non può liberarsi dalle proprie adesioni intime a qualche tipo di presupposti considerati veri.

Il secondo rilievo è di carattere pedagogico. Cosa può giustificare l’inserimento nella scuola statale di una ulteriore materia, quando esiste già quella chiamata Storia? Tutti gli insegnanti sanno che la prospettiva religiosa è una delle chiavi interpretative fondamentali delle dinamiche storiche e insegnano gli allievi a riconoscerla e comprenderla. Per quanto poi riguarda il riferimento alla realtà interculturale e all’inclusione sociale nello spirito della comune cittadinanza, anche qui esiste l’educazione trasversale chiamata “Cittadinanza e Costituzione”, in pratica la vecchia educazione civica.

Il terzo rilievo è di tipo religioso. Come si può distinguere, anzi no, separare la religione come “fatto” culturale dalla fede come esperienza trascendente e personale? È come fare l’autopsia della religione, cioè privare della vita la religione e poi pretendere di studiarne (e insegnarne) le dinamiche. Nessuna religione può essere compresa e insegnata al di fuori dell’adesione alla stessa. Nessun insegnamento neutrale è possibile a questo riguardo. Inoltre, dal fatto che lo Stato sia laico e pluralista e che lo sia anche la scuola statale, si deduce che lo Stato laico non ha le competenze né il diritto di impegnarsi in insegnamenti formali di religione nella scuola pubblica. Quindi, gli insegnanti che operano nella scuola pubblica non hanno alcun titolo per insegnare religione, sotto nessuna forma, né di storia né di scienze. Altre sono le sedi per questo: le famiglie principalmente, poi le istituzioni religiose a cui si riferiscono, chiese, sinagoghe, moschee.

Queste considerazioni ci portano infine a ribadire la convinzione che nella scuola pubblica non dovrebbe esserci nessun tipo di insegnamento religioso formale, o al limite potrebbe essere considerato come materia veramente facoltativa e collocato al di fuori dell’orario scolastico. Questa soluzione è la sola che può rendere ragione alle giuste istanze delle religioni da una parte, e alla laicità delle istituzioni dall’altra.

Il Comitato Insegnanti Evangelici Italiani – 1 gennaio 2015