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Ciechi alla guida.

In una scuola che sta navigando “a vista”, tra crisi ricorrenti, avvicendamenti di ministri, grandi, piccole e insulse riforme, ondate pandemiche, venti di guerra, è diventato anche “normale” per i suoi frequentatori essere gli ultimi a sapere le novità che la/li riguardano.
La più recente, passata in sordina all’approvazione della Camera, è una proposta di Legge intitolata: “Disposizioni per la prevenzione della dispersione scolastica mediante l’introduzione sperimentale delle competenze non cognitive nel metodo didattico”, presentata da diversi onorevoli aderenti all’Intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà.
Competenze rappresenta il mantra più inflazionato nel linguaggio “scolastichese”, eppure, rimane un concetto fumoso e demagogico, che si piega alle più diverse applicazioni. Introdotto dall’Unione Europea nel 2006 per uniformare e centralizzare i sistemi scolastici, il sistema delle competenze nasce con intento valutativo (con criteri rigorosamente quantitativi), ma ha pesanti ricadute nella qualità della didattica. È un sistema del “fare” che sostituisce quello antiquato del “conoscere”. Le competenze sono caratterizzate da “la capacità di usare la conoscenza, abilità e capacità personali sociali e/o metodologiche in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale”. L’adozione di questo sistema nella nostra scuola avrebbe voluto correggere il suo antico impianto nozionistico, ma lo ha fatto mercificando i contenuti disciplinari e riducendo la conoscenza a oggetto di consumo. La cosiddetta “didattica per competenze” pone l’accento sull’esperienza e sul fare, ovviamente ciò che è spendibile nell’immediato, secondo un pragmatismo che appiattisce la qualità e abbassa gli orizzonti della ricerca.
Nella suddetta proposta di Legge, però, la parola competenze si connota ulteriormente con l’aggettivo non cognitive, rientrando nelle più ampie competenze di vita, life skills. Si menzionano: l’amicalità, la coscienziosità, la stabilità emotiva, l’apertura mentale e poi, citando la letteratura specifica: l’autocontrollo, il benessere, la perseveranza, la felicità, la resilienza, una mentalità aperta, la grinta, l’intelligenza sociale, il carattere.
Se è discutibile la didattica per competenze cognitive (criticata da diversi fronti), quella delle competenze non cognitive sembra delirante per la sua presunzione di onnipotenza pedagogica.
In pratica, davanti all’ansia, all’infelicità, al malessere, all’instabilità emotiva, all’inaffidabilità, all’incoscienza ecc., che causano l’insuccesso scolastico, si dovrebbe rispondere con l’induzione di posture diverse, come se fosse possibile “insegnare” la felicità, il benessere, la stabilità emotiva, la coscienziosità ecc., al modo in cui si insegnano le tabelline e le poesie di Leopardi! Sembra che il progetto tratti con grande superficialità i problemi a cui vuole rispondere, riducendone la soluzione
all’uso di strumenti e abilità, per il raggiungimento dell’atteso effetto comportamentale, che nulla distinguerebbe da un’ipocrita simulazione.
Le competenze riguardano per definizione il fare ma non arrivano alla sfera dell’essere, al “cuore” della persona. Com’è possibile essere felici semplicemente ignorando le paure, la povertà, la disintegrazione sociale, la guerra, la malattia e la morte, la realtà evidente del male nel mondo? Il problema del male richiede risposte vere, che si trovano solo nella visione cristiana del mondo. A monte dell’abbandono scolastico, ci sono realtà sociali e famigliari che richiedono ben altro che sofisticati modelli psico pedagogici.
Si noti bene: l’idea di persona umana che sta alla base di tale progetto è tratta dalla macchina, il cui funzionamento è garantito da una corretta meccanica. Ma la complessità e la profondità della persona umana rivelano l’immagine di Chi l’ha progettata. Gli studenti, come persone, hanno una propria sfera di inviolabilità che non consente alla scuola di oltrepassare il limite che separa l’insegnamento dal condizionamento. L’interiorità, l’essere personale è una sfera che solo Dio può toccare. L’essere amichevoli, responsabili, stare bene con se stessi e con gli altri, essere affidabili, stabili emotivamente, felici, è una condizione che va al di là delle capacità dell’istruzione scolastica.
Infatti, essa, tramite i suoi operatori e il clima di apprendimento da loro instaurato, può insegnare solo un comportamento improntato alla gentilezza e al rispetto umano, competenze queste comprese nel lavoro dell’insegnante, al quale è richiesto di fornire un esempio di vita che esprime tali virtù. La scuola poi lavora in stretta connessione alla famiglia, che a sua volta è chiamata a provvedere alla “buona educazione”. Il fatto che ciò non sempre si verifichi non giustifica il trasferimento di tale responsabilità dalla sua sede naturale a quella scolastica. Non si può sovraccaricare la scuola di tutte le necessità educative delle giovani generazioni, perché non è questo il suo compito, e le difficoltà scolastiche degli ultimi decenni dimostrano la fallibilità di questo tentativo. Perciò non possiamo accogliere favorevolmente l’introduzione delle competenze non cognitive nella scuola e lo consideriamo un intervento miope e sbagliato.
La scuola deve riconoscere i propri limiti di competenza e di azione e le istituzioni che la governano dovrebbero saper individuare il campo d’azione che le spetta, supportando inoltre l’istituzione della famiglia nella formazione alla genitorialità.


Comitato Insegnanti Evangelici Italiani – Marzo 2022