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Quando i nodi vengono al pettine… Politiche scolastiche e difficoltà di apprendimento.

Riportiamo parafrasando e citando alcuni passi della nota prot. 1425 del 3 febbraio 2009 e del relativo allegato tecnico, con cui la Direzione Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale E.R. ha ripreso ed approfondito indicazioni riguardanti gli allievi con Disturbi Specifici di Apprendimento (D.S.A.: dislessia, disortografia, disgrafia e discalculia), argomento sul quale in Emilia R. sono state svolte diverse azioni di formazione per i docenti e cicli conferenze per i Dirigenti.
Le scuole sono state invitate a prestare la massima attenzione alle indicazioni contenute nella nota ed a valersi dei suggerimenti offerti nell’allegato tecnico.
I cd. Disturbi Specifici di Apprendimento fanno parte della più ampia categoria delle difficoltà di apprendimento, problemi che la scuola si è trovata ad affrontare negli ultimi anni in modo crescente, ai quali è necessario dare risposta per le serie conseguenze che essi apportano nella vita dei ragazzi che ne sono affetti, in ordine all’apprendimento e allo sviluppo delle competenze, ma con ricadute anche sugli aspetti emotivi di costruzione dell’identità, della stima di sé, delle relazioni con i pari.
In ambito internazionale c’è sempre più consenso riguardo al fatto che i DSA abbiano una base neurobiologica (sia pure non ancora completamente e definitivamente individuata) ma, come elementi contestuali, si possono notare anche l’aumentata complessità della realtà, in una società altamente alfabetizzata come quella occidentale, in cui il dominio dell’informazione è essenziale allo sviluppo intellettivo e sociale, società basata sulla manipolazione di simboli e di simboli di simboli, in cui persone con difficoltà specifiche in questo campo sono particolarmente esposte e vulnerabili. Ma possiamo ravvisare anche fattori sociali legati a ciò che con un’espressione sbrigativa può essere definita “crisi della famiglia”, e infine anche lo sviluppo della scienza diagnostica, che individua con maggiore precisione ciò che in passato era considerato “semplice” ritardo evolutivo.
Non c’è dubbio, e con questo concordiamo con il tono della nota, che “attendere le segnalazioni specialistiche (che per i DSA difficilmente possono avvenire prima
della seconda elementare) e mettere a quel punto in atto strategie correttive, significa avere perso molto tempo”.
Come insegnanti siamo stati in passato e siamo tuttora sensibili alle difficoltà dei nostri alunni e l’attenzione alla persona è sempre stata un faro nel nostro lavoro quotidiano. Tuttavia, se vogliamo fare un esame di coscienza, bisogna ammettere che non si è sviluppata una vera e propria “cultura” del sostegno alla persona in difficoltà e che a volte le famiglie segnalano situazioni in cui i ragazzi sono trascurati e perfino ignorati, perché la didattica non ha saputo essere duttile, elastica e sensibile ai bisogni specifici.
Le scuole insomma non sono “libere” di agire oppure di non agire, ma devono dare risposte, incontrare gli specifici bisogni degli allievi, promuoverne in ogni caso la competenza e lo sviluppo personale, predisponendo specifiche misure compensative e dispensative e un piano didattico personalizzato, senza tuttavia dare origine a frammentazione nell’azione educativa e didattica.
Questa nota di richiamo nei confronti della scuola, ci offre il destro per aprire una finestra sulle attuali condizioni del quotidiano lavoro di classe in cui gli insegnanti sono impegnati. Ed è qui che i nodi vengono al pettine.
Quando si parla di difficoltà a scuola (tra cui i D.S.A. sono solo una parte) si parla di una vasta serie di problematiche che vanno dalla disabilità vera e propria ai disturbi emotivi e affettivi, dai comportamenti aggressivi e iperattivi alle situazioni di deprivazione ed emarginazione culturali e sociali (immigrazione, povertà ecc.), e di tutte queste situazioni la scuola deve farsi quotidianamente carico. Bisogna però notare che non sempre ci si può avvalere delle tecnologie e dei materiali necessari per adottare le misure auspicate nella nota, perché non in dotazione alla scuola. Inoltre, sarebbe necessario che gli insegnanti potessero avvalersi di una presenza in loco di esperti (dov’è finito lo psicopedagogista… ?) e non attendere i tempi non proprio tempestivi del servizio pubblico. Inoltre, a comunicare le difficoltà di un alunno alla famiglia sono gli insegnanti, ma spesso sono lasciati soli nel difficile e delicato compito di trattare a volte con famiglie collaborative, altre volte con famiglia apertamente ostili e “sorde”. Non sarebbe bene prevedere una figura mediatrice tra le due? Ma la scuola non è fatta solo di difficoltà, ci sono anche alunni senza difficoltà, anzi, molto dotati ed “esigenti”, anche di ciascuno di loro l’insegnante si fa carico, in misura maggiore quanto
minore è la loro età, perché i piccoli non hanno la piena autonomia, ma devono essere guidati passo passo, a prescindere dal fatto che abbiano o no difficoltà.
Ora, una cosa è dire che l’alunno in difficoltà soprattutto ha diritto di essere personalmente supportato, diverso è affermare che a ciascun alunno deve corrispondere un piano didattico personalizzato, o un piano educativo individualizzato, o una personalizzazione dell’attività didattica…
Una cosa è che la scuola, come istituzione nel suo complesso, debba dare risposte a queste problematiche, altra cosa è che lo debba fare il singolo insegnante. Perché sia noto che, mentre da una parte vengono tagliati i fondi per gli organici, dall’altra si richiedono agli insegnanti prestazioni come quelle suesposte, che prevedono tra l’altro l’ubiquità (un alunno con difficoltà non va lasciato solo davanti al computer) o la moltiplicazione delle mani, degli occhi e delle voci.
Un esempio per tutti: nelle scuole primarie (in cui gli interventi sulle difficoltà possono essere più efficaci) sono state abolite le ore di compresenza degli insegnanti, ciò significa che quelle 6 ore (nel caso del modulo) e quelle 4 ore (nel caso del tempo pieno) che consentivano di personalizzare e individualizzare gli interventi didattici, non ci sono più. L’insegnante è unico, nella classe tipo, composta da 25 alunni in media, cinque dei quali presentano difficoltà di apprendimento di tipo diverso, altri cinque sono stranieri di diverse nazionalità, altri cinque sono o iperattivi, o depressi, o aggressivi, tra i restanti dieci ci sono quelli superdotati, quelli un po’ passivi, quelli molto dipendenti dall’adulto, ecc. ecc.
Quante programmazioni deve predisporre l’insegnante, ma soprattutto in che modo può metterle in atto, nello spazio-tempo scolastico, con tutti gli alunni e con ciascuno di essi, con la stessa efficacia? Come si possono fare politiche scolastiche che riducono le risorse umane (insostituibili) e nello stesso tempo pensare che le scuole, o meglio gli insegnanti, siano in grado di far fronte adeguatamente alle (giuste) richieste degli alunni, di rispondere ai loro sacrosanti diritti?
Noi ravvisiamo una preoccupante schizofrenia nell’istituzione scolastica: da una parte le alte cariche istituzionali si piegano a logiche di contenimento della spesa e dall’altra le stesse autorità richiedono l’ottemperanza dei doveri da parte delle scuole, mentre nella realtà del quotidiano lavoro a scuola insegnanti e dirigenti si trovano ad avere sempre meno “paglia” per costruire “mattoni” sempre più
numerosi e diversamente “lavorati”. Questa sì che è una difficoltà da prendere in seria considerazione, non solo per il successo scolastico degli alunni e per l’effettiva realizzazione del loro diritto allo studio, ma anche per la sopravvivenza dell’istituzione stessa e del suo ruolo nella società.

Comitato Insegnanti Evangelici Italiani – 4 marzo 2009