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The Bible and the Task of Teaching.

Autore: D. I. SMITH, J. SHORTT

Anno di pubblicazione: 2002

Editore: The Stapleford Centre

N. Pagine: 188

Il libro parte dall’esigenza di ridefinire l’educazione. Van Brummelen (1994) afferma: “Una visione cristiana del mondo prende come punto di partenza il fatto che la Bibbia è la Parola autorevole di Dio per la vita. Le Scritture sono la rivelazione ispirata di Dio che richiede ubbidienza e risposta… Se la Bibbia ha a che fare con tutta la vita, allora è pertinente anche per l’educazione.” La domanda centrale di questo libro è: in che modo è autorevole la Bibbia per l’educazione? Vengono esaminati vari approcci per mettere in relazione la Bibbia con l’educazione e vengono considerati i loro punti di forza e di debolezza. 

Tali approcci si focalizzano su:
1. le qualità personali dell’educatore formate dalla Bibbia (capitoli 3-4)
2. ciò che insegna la Bibbia sul mondo e la sua relazione con l’educazione (capitoli 4-5)
3. le narrative che si trovano sia nelle Scritture che nell’educazione (6-8)
4. il ruolo della metafora nella Bibbia e nell’educazione (9-11)
5. i modelli educativi presentati sia nei contenuti che nella forma della Bibbia (12-13).


Secondo il filosofo Paul Hirst è impossibile nella pratica definire la natura dell’educazione cristiana. Il primo problema è che la Bibbia non ha molto da dire sulle pratiche educative di oggi e i credenti arrivano a conclusioni diverse su questioni come ad esempio se educare i figli a casa, in scuole pubbliche o in scuole cristiane. Anche partendo dai principi, come quello della creazione dell’uomo all’immagine di Dio e dell’importanza di amare ogni bambino in modo individuale, si può arrivare a conclusioni diverse e perfino opposte, per esempio nel campo della valutazione. C’è chi vorrebbe abolire gli esami e chi li manterrebbe. C’è poi il rischio di far dire alla Bibbia ciò che non dice. Molti cristiani sono favorevoli allo studio del testo biblico nel contesto scolastico, ma questo non vuol dire che l’educazione stessa diventi biblica. Anzi, nelle mani di un educatore non credente la Bibbia può essere manipolata e perdere la sua posizione di autorità. Quali sono allora le opportunità per collegare la Bibbia in modo fruttuoso nel progetto quotidiano dell’insegnamento e dell’apprendimento?
La Parola diventata carne. La Bibbia deve formare il carattere dell’insegnante (2 Tim. 2,23-25, Giac. 3,17). L’insegnante cristiano “incarna” la visione biblica, vivendola nelle interazioni quotidiane dell’aula. Ma limitare l’impatto della Bibbia allo sviluppo del carattere dell’insegnante è una visione troppo ristretta, per fare un passo in più le qualità personali dell’insegnante devono avere una loro applicazione nel processo di insegnamento e di apprendimento che porti a degli aggiustamenti nella pedagogia. Se l’approccio “incarnazionale” è preso veramente sul serio deve portare ad una profonda riflessione su questioni di curriculum e pedagogia.
Mark Schwehn (1993) afferma: “L’apprendimento dipende non semplicemente dal possesso di certe abilità cognitive ma anche dal possesso di disposizioni morali o virtù che permettono all’indagine di procedere”. Virtù come l’umiltà, la carità ed il sacrificio di sé sono profondamente radicate nelle Scritture e questo è un esempio di come la Bibbia contribuisca con qualcosa di distintivo e sostanziale alla riflessione sull’educazione (distintivo, perché la cultura moderna propone altre qualità come l’auto-affermazione e l’autonomia). Schwehn: ”insegnare queste virtù significa prima esemplificarle, e poi ordinare la vita di
classe e di tutta la comunità accademica in modo che il loro esercizio venga visto e sentito come una parte essenziale dello studio”.
Le convinzioni cristiane tratte dalla Bibbia influenzano il nostro pensiero sull’educazione non tanto col mostrarci esattamente ciò che dobbiamo fare, ma offrendoci una direzione. Una convinzione cristiana può escludere certe visioni o pratiche (per esempio, l’astrologia), e può raccomandarne altre. In questi due casi funziona come un filtro. Un altro approccio è quello di esaminare delle pratiche, scoprire i loro presupposti, soppesarli e, se necessario, creare delle alternative. N. T. Wright suggerisce che il ruolo delle convinzioni è di impostare un processo creativo per tracciare delle esperienze di apprendimento. Questo approccio limita e orienta, ma non impedisce un lavoro di progettazione creativa. Non dobbiamo cercare delle correlazioni tra singole convinzioni e singole pratiche per avere alla fine un insieme di tecniche cristiane. Piuttosto cerchiamo di formare dei giudizi più complessi per valutare se certe pratiche sono coerenti con una visione del mondo biblica.
C’era una volta….. La narrativa svolge un ruolo importante nel dare significato all’apprendimento, in modi che mettono in gioco le nostre visioni fondamentali della vita. Per esempio, la pubblicità in TV ci presenta delle parabole organizzate attorno ad una teologia coerente che forniscono una specie di educazione religiosa, presentandoci lo stile di vita comandato dagli “dei” dei nostri tempi. Le storie che ci circondano formano i nostri atteggiamenti verso la vita, i nostri ideali, e ci forniscono le nostre visioni del mondo. Ci danno identità e modi di vivere. Ci danno degli eroi. Molti scritti recenti affermano che le storie sono centrali per il modo in cui strutturiamo la nostra comprensione di noi stessi e degli altri, delle azioni e degli avvenimenti. Le storie che fungono da cornice per la conoscenza non sono innocenti; sono radicate in credenze e priorità più ampie, e offrono agli alunni un certo modo di vedere il mondo e il loro futuro ruolo in esso. Gli educatori cristiani devono chiedersi in che modo la storia biblica della creazione, della caduta e della redenzione sia in relazione con le narrative del curriculum. La narrativa può promuovere un apprendimento profondo perché coinvolge tutta la persona: l’immaginazione, le emozioni e l’intelligenza. Le storie possono anche essere implicite nella nostra organizzazione e presentazione del materiale curricolare. La meta-narrazione della creazione, caduta e redenzione è la vera grande storia da mettere in relazione con l’educazione. E’ un punto di riferimento per poter giudicare la verità o falsità di altre narrative, anche se non ne consegue che queste altre narrative siano del tutto false. Anche la “forma” della storia è importante. Cambiando la forma della storia, viene cambiato il messaggio sottostante.
Nel cercare di capire come le visioni della vita diano forma all’apprendimento, non possiamo evitare di fare i conti con il potere e l’influenza delle storie. Dovremmo prendere sul serio il fatto che la nostra familiarità con particolari storie può bloccare l’apprendimento. Le nostre storie possono portarci fuori strada, perché cerchiamo di forzare il mondo nei contorni dei nostri racconti preferiti invece di adattare i nostri racconti alla verità. Spesso ci piace vedere la realtà falsificata. Il cuore ha i propri idoli. Le storie, perfino la storia biblica, possono essere usate per confermare i propri pregiudizi e mascherare i propri peccati. Credendo nella gravità del peccato, i credenti dovrebbero stare attenti. C’è il rischio di raccontare le storie bibliche per scopi personali, oppure di dipingere il mondo come noi lo vorremmo invece di affrontare le domande difficili poste dalla realtà. Diversamente dalle narrazioni che ci inducono a credere nel
potenziale umano e a sentirci sicuri nella conoscenza umana, la Bibbia racconta una storia di esseri peccaminosi che hanno scelto l’orgoglio e non l’amore e che hanno l’abitudine di sopprimere la verità. Ci invita a considerare come il peccato possa influenzare il nostro pensare e il nostro fare. La storia può fungere da specchio, mostrandoci le profondità nascoste del nostro essere ( 2 Sam. 12). Nella Bibbia troviamo più versioni delle stesse storie e questa diversità può essere suggestiva per il nostro uso educativo delle storie. Ogni tentativo di lasciare che la storia biblica formi e informi i nostri progetti educativi deve essere accompagnato da un costante auto-esame. In contesti laici, dove predominano altre visioni del mondo, c’è bisogno di sentire ciò che dice la Bibbia sui pericoli dell’ incredulità. La narrativa ha il potere di influenzare e ispirarci, ed è una forza potenziale o per il bene o per il male. Inoltre, essendo un approccio meno individualistico e più comunitario, aiuta lo studente a vedere che non è un’isola, sperduta in un mare immenso, ma parte della terraferma con una storia e un popolo. Una narrazione si muove dal passato al futuro, dalla memoria alla visione, e può quindi offrirci un senso di direzione, un orientamento nel tempo e nella storia. Diversamente dal mito del progresso, l’escatologia cristiana non privilegia la storia futura come se la storia passata fosse una cosa da dimenticare. Tutte le generazioni hanno un futuro nella nuova creazione di Dio. La speranza biblica (non l’ottimismo o il pessimismo degli umanisti) ha significato per l’intero curriculum.
Comenio scrive che gli alunni sono come delle piante, l’apprendimento una crescita organica e l’ambiente educativo un giardino curato dall’insegnante. Il compito dell’insegnante è di “annaffiare le piante di Dio”. Il mondo dovrebbe essere un giardino, ma è diventato un deserto. L’opera di Dio, attraverso agenzie “naturali” come l’educazione, svolge, secondo Comenio, un ruolo significativo nel processo di rinnovamento. Paragonare lo sviluppo del bambino con la crescita “naturale” di un seme sollecita l’intervento formativo dell’insegnante. Il giardino per Comenio non è un’immagine di natura incontaminata, ma di natura soggetta a disciplina perché possa portare più frutto. Il vero dominio (Gen. 1) implica curare con attenzione il giardino e lavorare per portare tutte le cose alla loro giusta realizzazione, cosicché tutte le creature lodino Dio. La razza umana non deve solo curare un giardino, ma essere un giardino. La metafora del giardino evoca i temi del piacere e del dispiacere di Dio, della vocazione e della responsabilità dell’uomo, del suo fallimento e della sua colpa, e della ri-forma redentiva. Il processo dell’apprendimento deve essere ordinato e piacevole, con disciplina (coltivazione) e giocosità (delizia). Nel chiamare le scuole dei giardini di delizia, Comenio ci offre un’immagine per i nostri pensieri, per indirizzare la nostra immaginazione lungo sentieri biblicamente orientati.
Una metafora apre la strada a tutta una serie di significati. La reazione ad una metafora si ispira alle proprietà delle immagini stesse ma anche alle esperienze personali. Inoltre una metafora può evocare l’esperienza di altri testi letti. La metafora del giardino di Comenio forma un ponte tra la storia di Eden e l’esperienza del lettore e delle realtà educative. Una metafora presa dalla Bibbia media l’insieme dei significati del testo biblico in una nuova situazione. La metafora fornisce il punto di contatto con le Scritture e mette in moto un insieme di interazioni tra immagini, storie e idee bibliche da una parte e pratiche educative dall’altra. Una metafora fertile applicata a qualche aspetto della prassi educativa può generare percezioni fresche, alcune delle quali possono suggerire nuovi modi di fare. Le metafore codificano le aspettative che abbiamo del processo educativo, comunicano quelle aspettative ad altri, svolgono un ruolo importante
nel formare ed esprimere la nostra visione di fondo. Molti studi hanno indicato che quelle metafore che abitano nel nostro pensiero tendono a formare dei gruppi o reti organizzati attorno ad una prima metafora particolare. Queste reti più larghe di immagini aiutano sia a sviluppare che a limitare il significato dell’immagine di base. Palmer (1983) afferma che l’educazione occidentale ha una visione della conoscenza come “potere” (lottiamo con le questioni, manipoliamo le idee, ecc.). Dice che abbiamo bisogno di recuperare “dalla nostra tradizione spirituale i modelli e i metodi della conoscenza come un atto di amore”, perché “l’atto di conoscere è un atto di amore, l’atto di entrare e abbracciare la realtà dell’altro, di permettere all’altro di entrare e abbracciare la nostra”. Brian Hill (1976 usa come metafora il concetto biblico della riconciliazione. Gli insegnanti dovrebbero vedere il loro ruolo nell’educazione come un’ estensione metaforica del grande atto di Dio della riconciliazione. Smith e Carvill (2000), scrivendo sull’insegnamento della lingua straniera, propongono di adottare come nostra immagine di base “ospitalità verso lo straniero”. Questi tre esempi educativi riflettono non solo delle singole immagini bibliche, ma anche un modello di relazioni tra la centralità dell’amore, il bisogno di riconciliazione a causa del peccato e le nostre relazioni con gli stranieri.
La metafora biblica informa il nostro pensiero educativo e rimane radicata in un contesto teologico. Una metafora biblica introduce i relativi testi biblici nel processo della sua interpretazione, e non solo questi, ma anche una rete più ampia di immagini. Se il modo in cui un’immagine viene sviluppata nel pensiero educativo porta a tensioni con questo contesto biblico più ampio, allora l’uso dell’immagine non è stato del tutto appropriato nella sua applicazione della Bibbia all’educazione. Se ha successo, una metafora presa dalle Scritture può evocare temi e storie scritturali, portando il pensiero stesso della Bibbia nel cuore dell’educazione. Le metafore riuscite ci trascinano nel mondo che evocano. L’ascoltatore è invitato a collaborare con colui che parla perché ci sia comunicazione. Quando rispondiamo ad una metafora fertile la nostra immaginazione, la nostra esperienza e le nostre emozioni sono state coinvolte, siamo stati indotti a fare certi collegamenti con le nostre esperienze e a vedere il mondo in un certo modo. La nostra risposta alle metafore della Bibbia può collegare in modo intimo le nostre vite (non solo i nostri intelletti) e la Bibbia. E’ una funzione chiave della metafora quella di permettere l’apprendimento collegando parti della nostra esperienza che altrimenti rimarrebbero separate; è questo che rende la metafora un filo significativo nel rapporto tra la Bibbia e l’educazione.
Gesù è l’insegnante modello per eccellenza. Era lui stesso il modello di ciò che insegnava. L’imitazione di Cristo significa agire nello stesso spirito e non copiare letteralmente ogni cosa che faceva, né estrarre e applicare dei principi con un processo razionale. Significa lasciarsi formare dall’esempio di Gesù attraverso un’immersione nei racconti evangelici e l’opera trasformatrice dello Spirito Santo. Il processo richiede umiltà, apertura al cambiamento e immaginazione per vedere nuove possibilità. Si tratta di conoscere una persona attraverso la Bibbia, una persona vivente che incontriamo nelle pagine delle Scritture e che è presente nella nostra situazione. E’ importante notare che la Bibbia non ci chiama ad essere diversi bensì fedeli. Brueggemann ( 1982) scrive: “La Torah non risponde ad ogni domanda. Seleziona. La risposta dell’adulto è autorevole. Non lascia che sia il bambino a determinare il terreno. Ma è anche onesta con il bambino. Concede l’ignoranza. Fa di più, onora il mistero. Assicura il bambino che c’è molto di più
che non conosciamo e non possiamo conoscere.” La narrativa proposta è un dono al bambino. Fa vedere un mondo ordinato ed affidabile nel quale il bambino può sentirsi sicuro. Questo esempio di un modello biblico per l’insegnamento è molto diverso da quello di Gesù come insegnante modello, ma l’elemento narrativo è presente in ambedue. La cosa importante è di guardare tutti i modelli educativi che le Scritture presentano.
Brueggemann scrive che serve anche il modello profetico di insegnamento. I profeti criticano la comprensione che la comunità ha della legge e vanno oltre. Un modo di insegnare di questo tipo non dirà semplicemente agli alunni “è così”, ma cercherà dei modi creativi e vividi per far loro sentire che le cose dovrebbero essere profondamente diverse da come sono adesso. Indicherà le distorsioni peccaminose della vita come vissuta ora e cercherà di risvegliare una fame per il cambiamento. In un articolo sull’ “educare per la giustizia sociale”, Joldersma (2001) afferma: “Cercare lo shalom necessita di un lato critico, che impegna gli studenti a diventare dei “siti di resistenza” con una sana dose di sfiducia riguardo alle ingiustizie”. Se tutto è promozione di stabilità, sicurezza e continuità, abbiamo un’educazione che fissa e fossilizza e accetta il mondo com’è con eccessivo compiacimento. Se invece ci limitiamo a mettere in discussione i modi di pensare e agire ricevuti dal passato, abbiamo un’educazione che priva gli alunni di un terreno stabile sotto i piedi. Abbiamo bisogno delle due cose, ma non solo. Dopo la Torah e i profeti, ci sono gli altri libri dell’A.T., e qui Brueggemann discerne un terzo modo di insegnare in cui l’enfasi è sulla saggezza che deve accompagnare la conoscenza e valutarla criticamente con domande profetiche. Saggezza e conoscenza vanno a braccetto nelle pagine delle Scritture. Brueggemann scrive: “Il compito educativo è di discernere e insegnare a discernere.” Melchert (1998) scrive: “L’educazione contemporanea tende a diventare una serie di specialità isolate che sembrano aver poco a che fare con la vita quotidiana nel mondo reale… Questi testi dell’A.T. fanno delle osservazioni e invitano o stuzzicano il lettore a trarre le proprie conclusioni, da testare e verificare nelle esperienze della vita, cosa che il discepolo deve fare da solo”. La capacità di discernere con saggezza è essenziale nelle relazioni umane o quando si sceglie la propria carriera, ma c’è anche bisogno di saggezza in tutto il curriculum, per esempio quando si impara a relazionarsi con il mondo naturale. Brueggemann ci invita a considerare il fatto che la Bibbia, nella sua forma canonica finale, contiene questa varietà di enfasi pedagogiche in rapporto fra di loro. La Torah viene prima e dà il fondamento, un senso stabile di identità, ma ha bisogno della parola del profeta, che costruisce sulla Torah e critica il consenso compiaciuto che può generare. In questo contesto sicuro ma vulnerabile della Torah e dei profeti gli altri Scritti ci invitano ad esplorare il significato della nostra esperienza del mondo attorno a noi. Un approccio canonico sottolinea il bisogno di prestare attenzione a tutta la Bibbia, e di trovare in essa dei correttivi per il nostro modo di insegnare. Questo approccio ci invita a considerare il processo e la forma del canone biblico, il processo pedagogico per il quale gli scritti biblici furono tramandati, e la forma del testo e il modo in cui mette in relazione le varie voci pedagogiche. Nell’insegnamento di Gesù non è difficile trovare questo approccio. Troviamo il fondamento della Torah, la voce profetica che scuote la comprensione della legge ( Matt. 5), i proverbi e gli enigmi, i detti della saggezza che richiedono il discernimento dell’esperienza. Quando leggiamo le storie dei re di Israele sembra che ci sia una certa selettività e perfino incompletezza nei racconti. Troviamo che la Bibbia sta perseguendo un insieme di questioni che
forse non sono le nostre, e proprio queste questioni offrono un modello che può dare una nuova direzione alla nostra ricerca. Può stimolare domande su aspetti trascurati o questioni ignorate. L’educazione può troppo facilmente diventare la pratica dell’assenza di Dio o, almeno, la mancanza di alcuni interessi divini che sono centrali nella Bibbia.
I collegamenti tra la Bibbia e l’educazione sono svariati e la loro relazione è complessa e sottile. La Bibbia può guidarci nella nostra prassi educativa, ma in modo da permettere alla nostra creatività (data da Dio) di fiorire entro una gamma di possibilità (non senza limiti). Restare entro i confini della meta-narrativa biblica e permettere alle metafore bibliche di svolgere un ruolo formativo nel nostro pensiero e nella nostra prassi sono ambedue modi di collegare la Bibbia all’educazione, ma tutte le nostre deduzioni logiche e tutto il nostro parlare della storia biblica o di metafore bibliche sono solo parole, se la Parola non “diventa carne” nelle nostre vite come cristiani in classe. Questo ci porta a considerare i modelli di insegnamento che la Bibbia ci fornisce, e in particolare Gesù stesso. Ci sono stati molti cambiamenti culturali ed educativi da quando la Bibbia è stata scritta, ma non hanno cancellato l’importanza di considerare le narrative, le immagini e le credenze fondamentali sul mondo, o i modelli impliciti che in modo sottile guidano in particolari direzioni le nostre nozioni. Oltre al ruolo dei princìpi, c’è uno spazio significativo per virtù, immagini, storie e modelli. Le credenze non dettano semplicemente la pratica, ma interagiscono con la pratica e con la nostra esperienza del mondo. Le implicazioni delle nostre credenze fondamentali, come sono percepite in un dato momento, possono cambiare man mano che cresce la nostra esperienza. La Bibbia non è un’enciclopedia, ma ci chiama a vivere alla luce della redenzione, ci parla della natura umana e del significato del mondo, ci presenta storie e immagini che ci invitano a vedere e a vivere nel mondo in certi modi, e ci propone dei modelli da imitare.
Per quanto riguarda la Bibbia come contenuto, chiaramente può avere un posto in molte parti del curriculum, non solo nell’ora di religione (l’A. parla di scuole cristiane, n.d.r.). La sua influenza è stata profonda nella storia e nella letteratura. Un approccio alla Bibbia che considera le sue esortazioni, le sue storie e le sue immagini potrebbe portare dei frutti più autentici di un approccio che si focalizza su uno o due aspetti o sulla citazione occasionale di qualche passo preso fuori dal suo contesto.
Gesù traeva delle conclusioni spesso sorprendenti dalle affermazioni delle scritture dell’A.T. Andava oltre la lettera di particolari comandamenti per rifarsi allo spirito di tutto l’insieme. Usava liberamente le metafore e frequentemente raccontava storie. E viveva ciò che insegnava, facendo sì che le relazioni fossero centrali. I vari approcci vanno insieme, ed è difficile separarli. Si completano. N. Wolterstorff (1980) dice che l’educazione cristiana è un’educazione che mira a formare persone per un modo di vivere cristiano, e non mira soltanto ad inculcare una visione cristiana del mondo e della vita.
Senza i frutti della grazia, le applicazioni della Bibbia saranno senza vita o perfino dannose, ed è in parte per questo motivo che questo libro non offre una ricetta biblica per l’educazione, ma descrive dei tentativi di vivere come educatori alla luce delle scritture.


Brenda Crook

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