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Così educo mio figlio in Italia

Autore: FATOU N’DIAYE 

Anno di pubblicazione: 2008

Editore: Bandecchi & Vivaldi, Pontedera

N. Pagine: 76

Una parola, a volte una musica o un incontro fortuito possono diventare molto significativi. Così un libro acquistato in spiaggia da un venditore ambulante mi ha dato lo spunto per rivisitare il mio retroterra culturale e per rileggere la questione educativa, di cui mi occupo come professione, sotto una nuova luce e una prospettiva stimolante. Non solo, mi ha dato anche il senso di un vero e proprio incontro personale da cui sono uscita arricchita e un po’ cambiata.


L’Autrice, una giovane senegalese, rimasta vedova con un bimbo, sceglie come progetto di vita di lasciare la sua terra e di abitare in Italia insieme al figlioletto di otto anni. Il retro copertina dice: “Il bambino deve rapidamente colmare il suo ritardo scolastico. Per aiutarlo la mamma si inventa un originale sistema educativo”. In realtà la mamma non si inventa nulla, ma attinge alla sua più autentica vocazione di educatrice e si serve degli strumenti che ha a sua disposizione, i classici della letteratura italiana, scegliendo quelli che rimandano a valori trans-culturali e tendenzialmente universali, per far crescere suo figlio da uomo onesto e da bravo cittadino. Buona conoscitrice della cultura italiana, oltre che della propria, riesce a essere critica nei confronti degli stereotipi di entrambe, tenendo di ciascuna i prodotti migliori e realizzando per sé e per suo figlio un personale e riuscitissimo esempio di integrazione culturale.


Ritengo esemplare anche il suo rapporto con la scuola e con le insegnanti del figlio. Nel pieno rispetto dell’istituzione, ma senza timori reverenziali o sensi di inferiorità per la sua condizione di donna immigrata, si affianca alla scuola con piena consapevolezza del proprio ruolo, senza delegare in alcun modo il proprio diritto-dovere a educare suo figlio e facendosi carico in prima persona delle sue difficoltà scolastiche.
La sua scelta richiede coraggio e determinazione, spesso deve anche andare contro il parere di conoscenti e amici, che la considerano troppo esigente e severa nello stile educativo. Di fronte al figlio che protesta perché i suoi coetanei sono fuori a giocare mentre lui sta in casa, chino sui libri, risponde: “Caro figlio, sei africano, molti italiani ti considereranno un diverso e allora devi essere diverso per davvero, distinguendoti dai tanti perdigiorno, vagabondi, fannulloni, accidiosi, disobbedienti, tristi, afasici, fissati con lo sport, imbambolati dalla televisione, degradati dal consumismo…perciò puoi reggere a questa prova durissima di studio a tappe forzate”.
Mi chiedo quanti genitori saprebbero porre un obbiettivo così nobile ed elevato per i propri figli, e se sarebbero disposti a lottare e a soffrire insieme a loro con la stessa passione di questa stupenda “sorella” africana.


Tra le sue riflessioni collaterali, degna di nota è quella che evidenzia un paradosso: nella società islamica senegalese, che lei definisce maschilista, si pratica la poligamia e gli uomini non hanno in genere rapporti molto stretti con le schiere di figlioli generati dalle diverse mogli, perciò si viene a tessere un legame strettissimo e intenso tra i figli e le madri, un legame che assume la forma di una quasi-religione, e le donne gestiscono così un potere fondamentale per il futuro della nazione, quello di educare i giovani. Una simile osservazione potrebbe però essere estesa anche in paesi come il nostro, in cui una storica cultura maschilista ha provocato negli anni una reazione di tipo matriarcale, che ha causato forse altrettanti danni del maschilismo, creando il tipo nostrano del “figlio di mammà”, a cui tutto è permesso e al quale non si chiede di avere troppa responsabilità, perché si sa, “i figli sono pezz’e core”.


Infine, ciò che depone positivamente a favore dell’attività della scrittrice è il fatto che parte dei proventi ricavati dalla vendita dei suoi libri è destinata a un’associazione di trecento mamme africane che hanno perduto i loro figli inghiottiti dall’Oceano Atlantico, durante il tentativo di raggiungere clandestinamente le Isole Canarie, e da lì l’Occidente (settemila morti solo nel 2006). Queste donne lottano per convincere i giovani a tentare altre strade e lavorano giorno e notte per fornire loro i mezzi materiali che la nazione non è in grado di provvedere.


Credo che una lettura come questa, nella sua semplice immediatezza e spontaneità, possa contribuire a scuotere la coscienza assopita di tanti educatori, insegnanti e genitori, che faticano a prendere atto di come sia necessario che la nostra idea di educazione e le nostre pratiche scolastiche possano attingere a quella prospettiva di cittadinanza mondiale da tante parti auspicata ma forse non bene compresa nelle sue implicazioni.


Lidia Goldoni