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Alcune osservazioni sulle “Indicazioni per il curricolo”.

Dal momento in cui sono state varate le Indicazioni Nazionali per la scuola primaria e secondaria
(di I grado) redatte dalla commissione incaricata dal Ministero, si è dato inizio alla disamina del
documento e, inevitabilmente, al confronto con le “vecchie” indicazioni di stampo morattiano.
A una prima occhiata, si nota il cambiamento dei titoli: il vecchio “Profilo” è stato sostituito con i
“Traguardi per lo sviluppo delle competenze”, al termine dei vari ordini di scuola (infanzia,
primaria, secondaria di primo grado). Sono stati fissati degli “Obbiettivi di apprendimento”, per il
cui conseguimento è stato riconosciuto un tempo congruo.
L’ “Educazione alla cittadinanza” come materia a sé non c’è più, al suo posto l’Educazione alla
legalità, interpretata in un’accezione molto ampia, occupa una dimensione trasversale e pervasiva
delle discipline, in ogni ordine di scuola.
Alcuni notano con disappunto l‘assenza di riferimenti alla teoria dell’evoluzione, riferimenti di cui
non si ravvisa la necessità, poiché gli artt. 21 e 33 fanno ancora parte della nostra Costituzione e
l’evoluzionismo, come del resto anche il creazionismo più avvertito, possono e devono avere
cittadinanza nella scuola pubblica allo stesso titolo, ossia come visioni del mondo e teorie
scientifiche che (come tutte le scienze) sono radicate in presupposti pre-logici, a-scientifici e non
dimostrabili.
Altri lamentano l’esclusione di ogni accenno alla Religione Cattolica, ignorando (?) che si tratta di
un curricolo di scuola statale che, in quanto istituzione della Repubblica, deve osservare il carattere
di laicità che le assegna la Costituzione, infatti il cattolicesimo non è religione di Stato e l’IRC è
una materia facoltativa.
In generale, nella stesura delle Indicazioni possiamo riconoscere un apprezzabile sforzo di
semplificare e sfrondare il superfluo, di rendere lineare e sintetico, quindi maggiormente fruibile, un
documento che dovrà fungere da riferimento per l’organizzazione del concreto lavoro didattico.
Tuttavia, dobbiamo anche rilevare che nelle Nuove Indicazioni non si respira un reale impegno
innovatore, né una volontà riformatrice. Ciò che si nota è una revisione delle “vecchie indicazioni”,
ma spoglia di sostanziali ed efficaci cambiamenti.
Per capire meglio le Indicazioni, è importante inoltre leggerle all’interno della “nuova cornice
culturale” in cui il Ministro le ha inserite, cornice che prende l’avvio dalla sfida di “dare senso alla
frammentazione del sapere”. Occuparsi della frammentazione del sapere può essere un indizio
positivo, quando serve a riconoscere i limiti della cultura odierna, di quella scolastica in particolare,
incapace di offrire agli alunni un’immagine unitaria e armonica del mondo e dell’essere umano nel
mondo. Questo è il retaggio della secolarizzazione, della caduta dei miti e delle ideologie nella
cultura occidentale, della eccessiva specializzazione delle scienze, occorre prenderne atto e mettersi
all’opera per una ridefinizione del “sapere” e per una sua ricomposizione, a partire dai presupposti
però, non dalla fruizione. Affermare che sia la scuola (dell’infanzia e primo ciclo) a dover dare un
senso a questa frammentazione è molto discutibile. Infatti, crediamo che il sapere abbia già un
senso in sé, perciò non c’è bisogno di inventarsene uno, piuttosto la scuola ha il compito di
organizzare tale sapere all’interno delle discipline, promuovendone incessantemente lo studio e
assicurando l’unitarietà che gli appartiene.
Un altro punto confutabile, per la contraddizione di fondo di cui è impregnato, riguarda l’idea che
“la nostra scuola deve essere un luogo in cui nelle diversità e nelle differenze si condivide l’unico
obiettivo che è la crescita della persona…”. La domanda che inevitabilmente ci si pone è: come
può essere la scuola un luogo favorevole alla crescita nel valore della diversità, dal momento che
tributa ad un’unica visione del mondo, quella cattolica, la priorità sulle altre, tramite il suo specifico
insegnamento? E’ cambiato il Ministro della Pubblica Istruzione, è cambiato il titolo del
documento, ma a quanto pare non è cambiata l’ipocrisia di fondo sul rispetto della diversità.
All’argomento, ampiamente trattato nelle scuole e onnipresente nelle iniziative per valorizzare la
società multietnica e multiculturale, mancano i presupposti per un’autentica realizzazione. Se non vi
è il superamento dell’IRC nella scuola statale, proclamare il valore della diversità diventa solo un
gioco di belle parole che nei fatti risulta inattuabile, perché svuotato del suo vero significato, che è
il principio di laicità.
Ma il fuoco ordinatore attorno a cui ruotano le Indicazioni è il riconoscimento del valore
imprescindibile della persona, per cui si arriva ad affermare che “la scuola può e deve realizzare
percorsi formativi sempre più rispondenti alle inclinazioni personali degli studenti”.
Quello della persona è un valore al quale non si può non aderire, pena il decadere della stessa ragion
d’essere della scuola; l’enfasi con cui viene ripetuto, pagina dopo pagina, sembrerebbe quindi
ridondante, fino a che non si coglie il senso in cui esso vuol essere interpretato, ossia un senso
individualistico, rispondente ai “bisogni e desideri” della singola persona, da assumere come
orientamento generale nell’applicazione delle Indicazioni.
Per noi, l’attenzione alla persona significa valorizzare gli alunni nella loro unicità, adeguare i tempi
e i modi della didattica alla loro capacità interattiva, rispettare le forme in cui ciascuno si appropria
del sapere… non certamente piegare gli obbiettivi finali, che dovrebbero garantire a tutti gli alunni
il raggiungimento di traguardi minimi e irrinunciabili, ai “bisogni e desideri” personali di ciascuno!
A parte il fatto che i desideri di un alunno spesso sono inconciliabili con i suoi doveri, ci si chiede
chi sia legittimamente chiamato a interpretare i suoi bisogni, senza parlare dell’arbitrarietà della
distinzione tra bisogno (legittimo) e mero desiderio (che può anche non essere legittimo).
Noi crediamo che la scuola non sia chiamata a rispondere a tali requisiti, e interpretiamo il
riferimento al valore della persona come atteggiamento umano e pedagogico generale, non come
espediente per creare un sistema di selezione precoce dei “più dotati”, da indirizzare verso certi
traguardi, e dei “meno dotati”, i quali si accontenteranno di meno.
Un certo sbilanciamento si nota anche laddove si parla di rapporto con le famiglie: “Insegnare le
regole del vivere e del convivere è per la scuola un compito oggi ancora più ineludibile rispetto al
passato, perché sono molti i casi nei quali le famiglie incontrano difficoltà più o meno grandi nello
svolgere il loro ruolo educativo” (Per una nuova cittadinanza). Come a dire: le famiglie non sono
più in grado di educare, quindi ci pensiamo noi. Questo è l’orientamento che si è andato affermando
negli ultimi decenni, sortendo l’effetto di rendere sempre meno efficiente la scuola: la confusione
dei ruoli rispettivi di scuola e famiglia, la tendenza dello Stato ad avocare a sé la responsabilità
educativa e la corrispettiva tendenza delle famiglie a delegare allo Stato questo loro primario diritto
dovere. Se le famiglie non riescono più a educare non bisogna sostituirsi loro, ma intervenire in
aiuto delle famiglie. Non pensiamo tanto a interventi di tipo culturale (come certi “corsi” per le
famiglie in cui la scuola insegna ai genitori a fare i genitori), ma seri interventi di politica
economica e sociale che possano consentire davvero alla famiglia di riappropriarsi del compito di
educare i figli, traendo i suoi modelli dalle agenzie che la famiglia stessa avrà scelto. Bisogna
riscoprire anche in questo la laicità delle istituzioni, che significa anche rispetto di ciascuna sfera di
responsabilità, e non ingerenza reciproca.
Per concludere, riteniamo che nella scuola statale potremo assistere ad una svolta autentica non
attraverso un sedicente “nuovo umanesimo”, infarcito di affermazioni retoriche e di buone
intenzioni, ma solo se si porrà al centro della discussione un ripensamento generale sui principi
dell’educazione e sull’effettivo peso da attribuirle nella politica nazionale. Mirare ad un
apprendimento unitario del sapere, chiarire i ruoli rispettivi e gli specifici apporti alla formazione,
riconoscendo ai genitori la titolarità dell’educazione e riservando alla scuola il suo compito
istituzionale di alfabetizzazione culturale, creare un clima favorevole per la formazione degli
studenti trasmettendo integralmente il valore della laicità, investire sulle risorse primarie per una
buona funzionalità della scuola (edilizia, risorse umane, semplici attrezzature didattiche) sono le
basi per fare della scuola il luogo in cui l’apprendimento possa essere finalizzato alla crescita
intellettuale e morale dei giovani, fondamentali per la conservazione e il progresso della civiltà.

Il Comitato Insegnanti Evangelici Italiani – 4 novembre 2007