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Atti di culto nella scuola pubblica: una sentenza discutibile.

Non deve sembrare strano che, in mezzo a tutti i cambiamenti che attraversa la scuola pubblica, qualcosa permanga costante, immutato nel corso dei decenni. Stiamo parlando dell’influenza che su di essa ha esercitato e ancora esercita la Chiesa Cattolica, influenza praticamente ininterrotta dagli anni venti del secolo scorso fino a oggi. Non sono bastati la guerra, la Costituzione, il sessantotto, il rinnovo del Concordato, le varie Repubbliche, l’eclissi delle ideologie, Internet, la crisi, la globalizzazione…

L’istituzione scolastica sembra essere stata “votata” ad una sola causa: conservare e perpetuare una determinata egemonia culturale sulle future generazioni. Perché, se è vero che nella scuola pubblica non è richiesta l’uniformità del pensiero bensì viene incoraggiato il “pensiero divergente”, tuttavia uno è il linguaggio prevalente che si ascolta dalla cattedra e fuori di essa, e una sola è l’istituzione deputata a esprimerlo: la Chiesa Cattolica Romana. O per lo meno, quello cattolico è il pensiero “istituzionale”, per il resto la scuola non ha (più) una sua propria identità. Questo a dispetto del fatto che sono molti e plurali i pensieri, le culture, i “saperi” che la scuola dichiara di accogliere e rappresentare.
Questa convinzione è rafforzata nel leggere la notizia che il Consiglio di Stato ha annullato una sentenza del TAR Emilia Romagna, che nel 2015 aveva vietato la celebrazione della benedizione pasquale, in orario extrascolastico, nei locali di una scuola bolognese, in quanto il rito rientrava nella
categoria “religiosa” e non culturale.
Le motivazioni dell’annullamento del Consiglio di Stato sono speciose e fuorvianti. I giudici affermano che la celebrazione di quel rito in luogo pubblico non lede in alcun modo il pensiero o il sentimento religioso di coloro che non sono cattolici, e che la richiesta di celebrare la benedizione
nella scuola è legittima perché il suo “senso” starebbe proprio nell’essere celebrata lì, e non altrove.
Prima cosa, è singolare che un giudice intervenga nel cosiddetto “fòro della coscienza” considerato per definizione inviolabile, dichiarando che un certo evento, riguardante le convinzioni più profonde (rito religioso), non sia lesivo per qualcuno, dal momento che questo qualcuno (genitori e insegnanti) ha presentato ricorso al TAR proprio perché si è sentito leso nella sua libertà di coscienza.
Al massimo si può affermare il diritto che quell’evento sia celebrato nel luogo desiderato (locali scolastici); ma a questo punto allora bisognerebbe riconoscere lo stesso diritto a tutte le religioni rappresentate nella scuola, cosa che è palesemente assurda, a meno che non si voglia che la scuola
cambi la propria natura da luogo di istruzione a luogo di culto! Ma forse, più ancora del sentimento religioso, quella che viene lesa è proprio l’imparzialità dello Stato, la sua funzione di arbitro tra le molteplici istanze comunitarie, il senso di cittadinanza, uguale per tutti i cittadini, in una parola: la laicità.

Alcuni pensano che la laicità sia un cavillo su cui amano trastullarsi i perditempo, perché i problemi della scuola sono ben altri. Costoro però dimenticano che per la mancanza di una vera e compiuta laicità, la spesa dello Stato per la religione cattolica nella scuola pubblica si aggira, secondo fonti autorevoli, intorno ai novecento milioni di Euro, risorse che potrebbero essere investite nella scuola.
Infatti, non è per venalità che vogliamo far notare come i tagli alla pubblica istruzione abbiano portato a una situazione al limite della gestibilità, con gravissime ricadute sulla qualità del lavoro didattico e sul benessere di studenti e personale scolastico.
Dobbiamo quindi prendere atto che la laicità nel nostro Paese è un percorso incompiuto e pesantemente condizionato da questioni estranee al diritto e alla giustizia, perché attinenti ai meccanismi di potere tra Stato Italiano e Vaticano, come ormai sanno anche i bambini, ma è sempre utile ribadirlo.
Possiamo quindi solo essere a fianco dei ricorrenti, che hanno deciso di rivolgersi alla Corte Europea, con la speranza che nel frattempo la loro voce non sia risucchiata nel calderone mediatico che ingloba, tritura e scodella quotidianamente ogni sorta di notizia alla pubblica opinione sempre più assuefatta e indifferente.

Il Comitato Insegnanti Evangelici Italiani — 31 marzo 2017