Come vivere la fede evangelica in un contesto laico?
- Posted by Insegnanti Evangelici
- Categories Comunicati
- Date Luglio 14, 2007
Un tema prioritario
Uno dei temi in cui ci siamo più impegnati come Ciei negli ultimi tempi è quello della laicità, per
difendere la quale abbiamo intrapreso anche delle battaglie insieme ad altre associazioni laiche e
religiose. Abbiamo problematizzato l’insegnamento della religione cattolica, ci siamo pronunciati
contro l’assunzione in ruolo di oltre 15.000 insegnanti di religione, abbiamo denunciato le visite dei
vescovi nella scuola statale, per ultimo abbiamo partecipato al ricorso al TAR contro la circolare n.
26/07 del Ministro che inseriva il giudizio di religione nella valutazione del credito formativo agli
esami di Stato.
Queste iniziative del cattolicesimo nella scuola le abbiamo considerate ingerenze illegittime perché
lesive della Costituzione che delinea la laicità come caratteristica fondamentale delle nostre
Istituzioni.
La laicità la intendiamo non tanto come rifiuto della religione, ma come spazio pubblico in cui non
si concedono privilegi a qualcuno a scapito degli altri, ma ogni persona e ogni fede sono considerati
equivalenti nella loro possibilità di confrontarsi e di esprimersi. In questo senso, la laicità è un
prerequisito della libertà di pensiero e di coscienza, e crediamo che debba qualificare l’operato della
scuola statale, come pure delle altre istituzioni della Repubblica.
A coloro che, pur rispettando la laicità, propongono di introdurre nella scuola statale lo studio di
tutte le religioni in forma culturale, abbiamo risposto che questo studio esiste già e si chiama
semplicemente “storia”; inoltre la religione non può prescindere dalla sua confessione, per cui
anche i suoi aspetti culturali sono impregnati di fede (la cultura islamica ha la sua ragione nella fede
islamica, la cultura cattolica si rifà alla fede cattolica ecc.). Studiare una religione solo come cultura
e senza la sua fede è come studiare il corpo umano privo della sua vita, ma studiarla come fede
comporta un aspetto di proselitismo che è inopportuno nella scuola.
È inopportuno perché siamo convinti che non sia la scuola il luogo in cui insegnare la religione,
infatti di questo privilegio sono stati investiti prima di tutto i genitori, e poi le chiese e le
confessioni religiose alle quali essi fanno riferimento. La scuola poi in questi ultimi anni sembra che
sia chiamata a fare di tutto, e in questo modo non può fare bene quello che è il suo compito
istituzionale.
A coloro che in diversi modi hanno avanzato la proposta di insegnare la Bibbia nella scuola statale
abbiamo replicato che la Parola di Dio non può essere abusata e strumentalizzata da chiunque si
improvvisi interprete, perché Dio stesso che ne è l’Autore ha stabilito le figure, i contesti e i modi
per interpretarla e insegnarla.
Alcune perplessità
Di fronte a queste prese di posizione del Ciei, diversi credenti hanno avanzato delle legittime
perplessità, che possono essere riassunte nelle seguenti domande:
Se la religione deve stare fuori dalla scuola, come fa un insegnante credente a vivere
pienamente la sua fede nel luogo in cui opera?
Per molti ragazzi la scuola forse è l’unico luogo in cui hanno la possibilità di ascoltare il
Vangelo, dovremo privarli di questa opportunità?
Piuttosto che il relativismo, non è meglio l’insegnamento del cattolicesimo?
Per rispondere a queste domande andremo a ritroso, cominciando dall’ultima.
Il cattolicesimo e la scuola
Considerare l’insegnamento della religione cattolica come il male minore significa non aver
compreso bene la natura del cattolicesimo. Il cattolicesimo è un vasto progetto umano che
mira a pervadere ogni ambito pubblico e privato al fine di sottoporre ogni cosa all’autorità
delle sue gerarchie (vedi il recente documento della Congregazione per la Dottrina della
fede della Chiesa cattolica). Il Vangelo invece è l’eterno progetto di Dio che mira a
sottoporre ogni cosa a Gesù Cristo. Sono diversi i mandanti, i messaggi e gli scopi finali. Il
cattolicesimo è un altro Vangelo rispetto a quello biblico, ma si serve di un linguaggio
biblico e fa appello al sentimento religioso per aggregare le persone attorno al suo centro, e
lo fa con molto fascino e persuasione. Al confronto di un progetto così bene organizzato e
che può contare sulla forza istituzionale di uno Stato (il Vaticano), il relativismo è un
movimento più disorganico che non ha forza istituzionale, anche se è altrettanto pervasivo.
Il relativismo gioca a carte scoperte e non è difficile individuare il suo punto debole, le sue
contraddizioni interne che lo rendono insostenibile. Tra questi due, non esiste il “male
minore”, ma entrambi devono essere problematizzati e confrontati con la verità di Cristo.
I giovani senza Cristo
La cosiddetta “società educante”, come la si chiamava negli anni ’70 (chi si ricorda del
famoso “Rapporto Faure”?) si è rivelata una penosa illusione pedagogica, una propaggine
del mito del progresso dell’uomo “faber fortunae suae” (che costruisce il proprio destino).
La società attuale è tutt’altro che educante, aggressiva, autodistruttiva e pervasa da una
cultura nichilista e decadente. La famiglia, il nucleo della società, è in una profonda e grave
crisi d’identità. Il matrimonio è disonorato, i figli non sono educati. Per molti giovani oggi
la scuola è l’unico luogo in cui può sperimentare rapporti umani civili, all’insegna del
confronto e del rispetto, dove forse è loro possibile ascoltare parole di verità e di carità.
Perché l’insegnante cristiano non dovrebbe cogliere questa preziosa occasione parlando ai
giovani del Vangelo? La risposta non è semplice, perché viviamo sulla nostra pelle la
drammaticità della situazione. L’insegnante della scuola statale gode della libertà
d’insegnamento (art. 33 della Costituzione), ma questa libertà non è senza limiti, bensì deve
porsi come limite la libertà dell’altro, soprattutto quando l’altro è un minore, per definizione
debole e dalla coscienza influenzabile, quindi da tutelare in ogni modo. Chi fa proselitismo a
scuola può incorrere nell’accusa di plagio, e chissà, seguendo questo esempio, anche
insegnanti non cristiani (atei, scientologi, seguaci delle sette…) potrebbero fare altrettanto.
Inoltre, anche se la famiglia è assente e a volte anche peggio, non crediamo sia lecito che la
scuola e l’insegnante si sostituiscano a essa nell’educazione religiosa dei figli, bisogna
invece predisporre degli interventi in favore delle famiglie disagiate culturalmente e
socialmente, affinché possano provvedere loro stesse a questo compito. Perciò siamo
decisamente contrari a questo tipo di intervento; non siamo invece contrari a una sobria e
pacata testimonianza cristiana di vita e di insegnamento che il credente può legittimamente
rendere in classe con alunni, colleghi e superiori.
Testimoni nella scuola laica
Abbiamo detto che siamo contrari all’insegnamento formale di una disciplina chiamata
religione, o storia delle religioni, o allo studio del testo biblico, ma non siamo così ingenui
da pensare che la religione sia assente dalla scuola. Con la parola religione, infatti, possiamo
intendere 1) la teologia, la dottrina riguardante un certo credo; ma anche 2) la religiosità, il
clima culturale, lo sfondo in cui è situata la comprensione del mondo. Quando affermiamo
che si dovrebbe togliere l’ora di religione nelle scuole, abbiamo in mente la prima accezione
di religione. Nella seconda accezione invece, la scuola (le sue materie, le sue tecniche, le sue
tradizioni pedagogiche, i suoi insegnanti ecc.) è impregnata di religiosità, si fonda su
presupposti religiosi, ovvero le risposte che si danno alle domande fondamentali: cos’è il
mondo e perché esiste, chi è l’uomo, cosa sono il bene e il male, il vero e il falso, il giusto e
lo sbagliato. E non potrebbe essere altrimenti, perché l’uomo è un essere religioso per natura
(di una religiosità pagana e idolatra, se Dio non interviene nella sua vita). È in questo
contesto che l’insegnante credente è chiamato a vivere la sua fede, non certo in un ambito di
presunta neutralità o autonomia. Ma come vivere questa fede, in che modo l’adesione alla
verità rivelata può essere vissuta in un contesto laico?
1. In primo luogo la Bibbia deve formare il carattere dell’insegnante credente.
L’insegnante cristiano “incarna” la visione biblica, vivendola nelle interazioni
quotidiane dell’aula, anzi, le qualità personali dell’insegnante devono applicarsi al
processo di insegnamento e di apprendimento in modo da portare degli
aggiustamenti nella sua pedagogia. Virtù come l’umiltà, la carità ed il sacrificio di sé
sono profondamente radicate nelle Scritture e quando sono vissute esemplificano
come la Bibbia contribuisca con qualcosa di distintivo e sostanziale alla riflessione
sull’educazione (distintivo, perché la cultura moderna propone altre qualità come
l’auto-affermazione e l’autonomia).
2. Le convinzioni cristiane tratte dalla Bibbia influenzano il nostro pensiero
sull’educazione non tanto col mostrarci esattamente ciò che dobbiamo fare, ma
offrendoci una direzione. Una convinzione cristiana può escludere certe visioni o
pratiche (per esempio, l’astrologia), e può raccomandarne altre. In questi due casi
funziona come un filtro. Un altro approccio è quello di esaminare le pratiche
didattiche, scoprire i loro presupposti, soppesarli e, se necessario, creare delle
alternative.
3. Anche la narrativa svolge un ruolo importante nel dare significato
all’apprendimento, in modo da mettere in gioco le nostre visioni fondamentali della
vita. Per esempio, la pubblicità in TV ci presenta delle parabole organizzate attorno
ad una teologia coerente che forniscono una specie di educazione religiosa,
presentandoci lo stile di vita comandato dagli “dei” dei nostri tempi. Le storie che ci
circondano formano i nostri atteggiamenti verso la vita, i nostri ideali, e ci
forniscono le nostre visioni del mondo. Ci danno identità e modi di vivere. Ci danno
degli eroi. Molti scritti recenti affermano che le storie sono centrali per il modo in
cui strutturiamo la nostra comprensione di noi stessi e degli altri, delle azioni e degli
avvenimenti. Le storie che fungono da cornice per la conoscenza non sono innocenti;
sono radicate in credenze e priorità più ampie, e offrono agli alunni un certo modo di
vedere il mondo e il loro futuro ruolo in esso. La narrativa può promuovere un
apprendimento profondo perché coinvolge tutta la persona: l’immaginazione, le
emozioni e l’intelligenza. Quindi anche nella scelta e nell’interpretazione delle
narrazioni l’insegnante cristiano può operare con oculatezza.
4. Comenio scrive che gli alunni sono come delle piante, l’apprendimento una crescita
organica e l’ambiente educativo un giardino curato dall’insegnante. Il compito
dell’insegnante è di “annaffiare le piante di Dio”. Il mondo dovrebbe essere un
giardino, ma è diventato un deserto. L’opera di Dio, attraverso agenzie “naturali”
come l’educazione, svolge, secondo Comenio, un ruolo significativo nel processo di
rinnovamento. Palmer (1983) afferma che l’educazione occidentale ha una visione
della conoscenza come “potere” (lottiamo con le questioni, manipoliamo le idee
ecc.). Dice che abbiamo bisogno di recuperare “i modelli e i metodi della conoscenza
come un atto di amore”, perché “l’atto di conoscere è un atto di amore, l’atto di
entrare e abbracciare la realtà dell’altro, di permettere all’altro di entrare e
abbracciare la nostra”. Smith e Carvill (2000), scrivendo sull’insegnamento della
lingua straniera, propongono di adottare come nostra immagine di base “ospitalità
verso lo straniero”.
5. Gesù è l’insegnante modello per eccellenza. Era lui stesso il modello di ciò che
insegnava. L’imitazione di Cristo significa agire nello stesso spirito e non copiare
letteralmente ogni cosa che faceva, né estrarre e applicare dei principi con un
processo razionale. Significa lasciarsi formare dall’esempio di Gesù attraverso
un’immersione nei racconti evangelici e l’opera trasformatrice dello Spirito Santo. Il
processo richiede umiltà, apertura al cambiamento e immaginazione per vedere
nuove possibilità. Si tratta di conoscere una persona attraverso la Bibbia, una persona
vivente che incontriamo nelle pagine delle Scritture e che è presente nella nostra
situazione.
6. Brueggemann ( 1982) scrive: “La Torah non risponde ad ogni domanda. Seleziona.
La risposta dell’adulto è autorevole. Non lascia che sia il bambino a determinare il
terreno. Ma è anche onesta con il bambino. Concede l’ignoranza. Fa di più, onora il
mistero. Assicura il bambino che c’è molto di più che non conosciamo e non
possiamo conoscere”. Brueggemann considera anche il modello profetico di
insegnamento. Un modo di insegnare di questo tipo non dirà semplicemente agli
alunni “è così”, ma cercherà dei modi creativi e vividi per far loro sentire che le cose
dovrebbero essere profondamente diverse da come sono adesso. Indicherà le
distorsioni peccaminose della vita come vissuta ora e cercherà di risvegliare una
fame per il cambiamento. In un articolo sull’ “educare per la giustizia sociale”,
Joldersma (2001) afferma: “Cercare lo shalom necessita di un lato critico, che
impegna gli studenti a diventare dei “siti di resistenza” con una sana dose di sfiducia
riguardo alle ingiustizie”. Se tutto è promozione di stabilità, sicurezza e continuità,
abbiamo un’educazione che fissa e fossilizza e accetta il mondo com’è con eccessivo
compiacimento. Se invece ci limitiamo a mettere in discussione i modi di pensare e
agire ricevuti dal passato, abbiamo un’educazione che priva gli alunni di un terreno
stabile sotto i piedi. Abbiamo bisogno delle due cose, ma non solo.
In conclusione, queste brevi note possono servire da stimoli per la riflessione e il confronto. Ci
mostrano che i collegamenti tra la Bibbia e l’educazione sono svariati e la loro relazione è
complessa e sottile. La Bibbia può guidarci nella nostra prassi educativa, ma in modo da permettere
alla nostra creatività (data da Dio) di fiorire entro una gamma di possibilità che sono limitate dal
contesto in cui operiamo. Nel contesto della scuola pubblica è evidente che non si può realizzare un
compiuto progetto di educazione cristiana. In quel contesto, gli insegnanti cristiani hanno bisogno
di molta saggezza e lungimiranza per essere fedeli alla loro vocazione, rispettando la coscienza
degli alunni e onorando lealmente il loro ruolo di pubblici ufficiali.
Il Comitato Insegnanti Evangelici Italiani – 14 luglio 2007