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Paedagogium – un luogo di pedagogia.

Spunti per la riflessione tratti dal libro On Christian Teaching di David I. Smith, Eerdmans 2018.

Invitandoci a considerare quale potrebbe essere una pedagogia cristiana, Smith ci ricorda che nei primi secoli dopo la fondazione delle università un paedagogium era una casa in cui gli studenti vivevano e studiavano, e già questo dovrebbe indurci a considerare l’insegnamento non come un insieme di tecniche ma come l’offerta di una casa temporanea in cui gli alunni vivranno per un po’ di tempo, accolti come ospiti. Come in tutte le case ci sono le risorse per la crescita dei suoi abitanti e dei modelli di interazione.
Nel secondo capitolo l’autore fa una scelta interessante. Invece di iniziare con dei grandi concetti, decide di osservare e analizzare ciò che avviene nei primi nove minuti di una lezione di lingua straniera il primo giorno dell’anno scolastico. Certamente non vengono discusse le domande profonde sul significato della vita, e nessuno prega o consulta la Bibbia, e la tentazione sarebbe quella di dire che qui non c’entra la fede, ma Smith chiede quale casa pedagogica è già in via di costruzione in questi primi momenti. L’invito alla fine del capitolo è di chiederci perché facciamo certe attività. Quali sono i valori che implicitamente comunichiamo? Quale importanza abbiamo dato agli spazi, al tempo, ai modi in cui gli alunni interagiscono? Quali sono i nostri obbiettivi?
Smith, insegnante di tedesco, riconosce che non sta mai insegnando la sua disciplina in un vuoto valoriale. Consapevoli o meno, trasmettiamo di più delle nostre materie. I nostri alunni si siedono in file e imparano ripetendo le stesse frasi con grande intensità finché non le conoscono a memoria? Fanno così coloro che hanno la convinzione comportamentista che gli alunni siano essenzialmente dei sistemi biologici che possono essere condizionati con l’applicazione ripetitiva dei giusti stimoli. I nostri alunni si siedono in cerchio e scelgono loro gli argomenti da discutere? Fanno così coloro che hanno la convinzione esistenzialista che l’apprendimento debba essere radicato nel bisogno dell’alunno di autogestione e autostima. Investiamo tante energie per spiegare delle strutture grammaticali rappresentandole in modo sistematico? E’ la convinzione razionalista che crede che la cosa più importante sia quella di sviluppare la capacità di pensare in schemi logici. I nostri alunni si dedicano a imparare dei dialoghi in lingua straniera utili per andare al bar, alla stazione, in albergo? Qui c’è la convinzione consumistica che quello che conti di più è la comunicazione pratica necessaria per soddisfare i bisogni di cibo, trasporto e alloggio. Sono solo alcuni esempi per aiutarci a vedere che trasmettiamo molto di più dell’argomento principale della lezione. La questione è sicuramente complessa ma sarebbe sbagliato pensare che ci sia una neutralità valoriale.
E una pedagogia cristiana? Non ci siamo ancora. Con ironia Smith esprime la sua sorpresa che la Bibbia dica così poco su come disporre le sedie e i banchi in un’aula scolastica. Torna a considerare i primi nove minuti della lezione descritta nel secondo capitolo per vedere se la fede ha effettivamente avuto un ruolo e si chiede in quali altri modi sarebbe stato possibile svolgere l’attività. Anche la scelta di darsi da fare per imparare i nomi degli alunni, per esempio, può già essere molto significativo. Un insegnante non vuole farlo? Forse perché ha una visione della conoscenza come una cosa impersonale, oggettiva, slegata dai contesti, e forse pensa che le idee siano più importanti delle identità. Forse crede che in questo modo ognuno è più libero di esprimere le proprie idee perché, se queste vengono criticate, non è l’individuo a essere criticato. Forse pensa anche di annullare le differenze di status sociale così, perché non importa chi tu sei, ma ciò che hai pensato. Dalla semplice decisione di non dedicare del tempo per imparare i nomi vediamo che certe convinzioni implicite hanno svolto un ruolo nell’evento. Ci ha fatto capire che in questo caso la giustizia e la liberazione vengono viste erroneamente in termini di fuga dalle nostre identità particolari per entrare in uno spazio razionale neutrale.
L’autore si chiede da molti anni che cosa potrebbe significare considerare gli alunni non come delle menti, dei clienti, o delle sfide, ma come immagini di Dio chiamate a vivere fedelmente nell’amore di Dio e del prossimo, e come le aule potrebbero rappresentare la virtù cristiana dell’ospitalità. L’accento dato nel
Nuovo Testamento a “gli uni gli altri” dovrebbe portarci a resistere all’importanza usualmente data al successo individuale e a valorizzare invece i punti di vista di tutti. Sicuramente i cristiani non sono gli unici a dare valore alla vita comunitaria e a cercare di onorare gli alunni ma i cristiani lo fanno per motivi cristiani e un ragionamento cristiano è stato alla base delle scelte di Smith di focalizzare sull’ascolto, sul rispetto, sulla vita di comunità, ecc.
Non pretende di avere tutte le risposte riguardo all’applicazione della fede cristiana nella classe ma vuole che siamo pienamente consapevoli che la pedagogia non è mai innocente. Come ha detto Jerome Bruner (1), “E’ un mezzo che porta con sé il proprio messaggio.” Inoltre, è probabile che gli alunni sottoposti a una particolare pedagogia adottino le sue richieste e i suoi valori impliciti. Imparano a relazionarsi in modo nuovo con gli altri, con l’argomento insegnato, con l’insegnante, con sé stessi e con il mondo più ampio. All’inizio di questo anno scolastico riflettiamo sui nostri obbiettivi per la crescita dei nostri alunni. Il nostro approccio, le nostre strategie, saranno adeguati a raggiungerli?

1) Jerome Bruner, The Culture of Education (Cambridge,MA/London: Harvard University Press, 1996), 63.

Brenda Crook – Comitato Insegnanti Evangelici Italiani – settembre 2024